La sentenza n. 29435/2022 stabilisce che il nesso tra infezione virale e lavoro può essere dimostrato con la “ragionevole probabilità”, tutelando i professionisti sanitari
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29435 del 10 ottobre 2022, ha segnato un punto di svolta nel diritto del lavoro e della previdenza sociale, stabilendo un principio di fondamentale importanza per tutti i professionisti sanitari. La Suprema Corte ha accolto il ricorso di un infermiere professionista a cui era stato negato l’indennizzo dall’INAIL per aver contratto l’epatite C (HCV), chiarendo che per le infezioni virali non è necessaria la prova “rigorosa” di un singolo evento di contagio.
Il caso: una lunga battaglia giudiziaria
Il caso riguarda G.B., un infermiere che nel 2007 ha lavorato in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA). Durante quell’anno, l’infermiere ha denunciato di aver contratto l’epatite C, un’infezione che, a suo dire, era riconducibile all’attività professionale svolta. Nelle sue mansioni rientravano la cura di pazienti anziani, molti dei quali epatopatici e con piaghe da decubito, e l’esecuzione di trattamenti per via parenterale, che lo esponevano costantemente al rischio di contatto con fluidi biologici infetti.
La sua richiesta di indennizzo all’INAIL, avanzata sulla base del d.p.r. 1124/1965 (il Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali), è stata respinta in primo grado dal Tribunale di Agrigento e successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Palermo. I giudici di merito hanno ritenuto che l’infermiere non avesse fornito una prova sufficiente del nesso causale, sostenendo che non bastasse la mera descrizione delle mansioni lavorative, ma fosse necessaria la dimostrazione di un evento specifico e preciso, come una puntura con un ago infetto o una ferita.
I motivi del ricorso: argomentazioni e riferimenti normativi
Il lavoratore ha impugnato la sentenza in Cassazione, la quale ha articolato il suo ragionamento su tre punti chiave:
- Valore probatorio della Commissione medica: il primo motivo contestava il disconoscimento da parte della Corte d’Appello del verbale della Commissione medica ospedaliera che aveva già riconosciuto l’origine professionale della malattia per l’indennizzo ai sensi della L. 210/1992. Il ricorrente sosteneva che l’INAIL, come ente pubblico, non potesse ignorare un accertamento proveniente da un altro organo statale. La Cassazione ha respinto questa argomentazione, chiarendo che gli accertamenti di altre commissioni mediche non hanno un “effetto vincolante” sul giudizio civile e possono essere considerati al massimo come “mezzi atipici di prova liberamente valutabili”.
- L’onere della prova nelle malattie professionali: il lavoratore ha sostenuto che l’epatite C rientrasse nelle malattie professionali tabellate, anche se in una diversa tabella (l’elenco delle malattie professionali di cui è obbligatoria la denuncia ex art. 139 d.p.r. 1124/1965). A suo avviso, questo avrebbe dovuto comportare un’inversione dell’onere della prova, ponendolo a carico dell’INAIL. Su questo punto, la Cassazione ha fatto una precisazione fondamentale: mentre la tabella allegato n. 4 dell’art. 3 del d.p.r. 1124/1965 inverte l’onere della prova del nesso causale, ponendolo, per i casi in essa indicati, a carico dell’ente previdenziale, l’elenco delle malattie professionali di cui di cui è obbligatoria la denuncia ex art. 139, ha solo un “valore epidemiologico”, fornendo un elemento indiziario e non una presunzione legale, per cui la prova del nesso causale rimane a carico del lavoratore.
- Il nesso causale “probabilistico”: l’aspetto più importante della sentenza riguarda proprio l’onere probatorio. La Corte d’Appello aveva richiesto la “prova rigorosa dell’evento infettante”, ma la Cassazione ha riaffermato un principio già consolidato nella giurisprudenza di legittimità (a partire dalla sentenza della Cassazione n. 7306/2000): un’infezione virale, pur se i suoi effetti si manifestano nel tempo, può essere considerata un infortunio sul lavoro anche in assenza di un singolo e specifico evento scatenante. La dimostrazione del nesso causale può essere fornita attraverso “presunzioni semplici” basate sulla valutazione probabilistica del rischio professionale.
La decisione finale: una vittoria per i lavoratori
La Cassazione ha pertanto accolto il ricorso dell’infermiere, ribadendo che la Corte d’Appello ha erroneamente richiesto una prova troppo stringente. Il giudizio, ha stabilito la Suprema Corte, deve basarsi su un’analisi della “tipologia” delle mansioni e delle “modalità concrete” del loro svolgimento, senza la necessità di individuare uno specifico atto o episodio di contagio.
La sentenza ha quindi cassato la decisione della Corte d’Appello di Palermo e ha rinviato il caso a una diversa sezione della stessa Corte per valutare il nesso causale in base al principio della “ragionevole probabilità”, come richiesto dalla giurisprudenza. La pronuncia della Cassazione è un precedente significativo che rafforza la tutela previdenziale dei lavoratori esposti a rischi biologici e riconosce la complessità della prova in casi di malattie a lenta incubazione o derivanti da un’esposizione costante nel tempo.