Sindrome dei Balcani e vittime del dovere

Le Commissioni d'inchiesta cercano di fare chiarezza sull’utilizzo di munizioni all’uranio impoverito da parte dei militari italiani mandati in missione all’estero e sulle conseguenze dell’esposizione per la loro salute, e la giurisprudenza, intanto, fissa i principi.
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Sindrome dei Balcani e vittime del dovere

La Sindrome dei Balcani è un insieme di gravi patologie, principalmente tumori e linfomi, che hanno colpito numerosi militari italiani di ritorno dalle missioni nei Balcani tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Questi militari hanno manifestato un’incidenza significativamente più alta di tumori, malattie autoimmuni e altre patologie rispetto alla popolazione generale. Questa condizione è stata associata all’esposizione all’ uranio impoverito, un materiale radioattivo utilizzato nella produzione di munizioni.

Come si manifesta?

I sintomi e le malattie associate alla Sindrome dei Balcani sono molteplici e possono includere:

  • Tumori: In particolare, linfomi di Hodgkin e non Hodgkin.
  • Leucemie: Alterazioni del sangue a causa della proliferazione incontrollata di cellule immature.
  • Altre patologie: Problemi respiratori, malattie autoimmuni e disturbi neurologici.

Tumori e uranio impoverito: il legame oscuro

L’uranio impoverito era presente nei proiettili e nei missili anticarro utilizzati nei conflitti balcanici. L’esplosione dei proiettili e la distruzione controllata di munizioni inutilizzate, rilasciano nell’ambiente nanoparticelle di metalli pesanti altamente tossiche quando viene proiettato e colpisce un bersaglio. Queste nanoparticelle sono suscettibili di dispersione anche a grande distanza dal luogo dell’impatto dei proiettili. Le particelle radioattive possono essere, così, inalate o ingerite, accumulandosi nei tessuti e danneggiando il DNA. Ciò aumenta il rischio di sviluppare tumori.

L’uranio impoverito: un rischio complesso

L’uranio impoverito, composto principalmente da U-238, emette radiazioni alfa e gamma di bassa energia. Esternamente, il rischio è minimo: guanti e indumenti protettivi bloccano le radiazioni alfa.

Il pericolo maggiore risiede nella contaminazione interna.

Ingerendo cibo o bevande contaminati, inalando polveri o attraverso ferite aperte, le particelle di uranio possono entrare nel corpo. Le radiazioni alfa, una volta all’interno, danneggiano direttamente i tessuti.

Tuttavia, non è solo la radioattività a preoccupare. L’uranio è un metallo pesante, e come tale può causare danni ai reni, al fegato e ad altri organi, proprio come il piombo o il tungsteno. Questo effetto tossico è spesso più immediato e grave rispetto a quelli a lungo termine legati alla radioattività.

Il nostro corpo è in grado di eliminare piccole quantità di uranio, ma un’esposizione prolungata può sovraccaricare i meccanismi di depurazione, provocando un’intossicazione acuta.

Il dibattito pubblico e istituzionale

A seguito delle denunce di malattie tra i militari italiani di ritorno dalle missioni, il tema è approdato in Parlamento, portando alla costituzione di diverse Commissioni d’inchiesta. Le indagini hanno confermato l’utilizzo di munizioni all’uranio impoverito nei Balcani, in particolare in Kosovo, sollevando preoccupazioni sulla salute dei militari esposti. Nonostante le rassicurazioni iniziali, studi successivi hanno evidenziato un eccesso statisticamente significativo di casi di linfoma di Hodgkin e non Hodgkin tra i militari italiani, sebbene non sia stata individuata una causa certa.

L’ultima Commissione Parlamentare d’inchiesta è stata istituita nella  XVII legislatura, con la deliberazione del 30 giugno 2015, sui casi di morte e di gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato in missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti di deposito di munizioni, in relazione all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno e da somministrazione di vaccini, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni.

La Commissione fonda la propria attività sulle conclusioni contenute nelle relazioni finali presentate dalle Commissioni parlamentari di inchiesta istituite dal Senato della Repubblica nel 2006 e nel 2010. Si tratta infatti di un percorso di inchiesta risalente nel tempo.

Questa Commissione rappresenta la quarta istituzione parlamentare italiana ad essere incaricata di approfondire le complesse tematiche connesse all’impiego di uranio impoverito nelle Forze Armate nazionali. L’indagine si estende a un ampio ventaglio di patologie potenzialmente correlate all’esposizione all’uranio impoverito, con particolare attenzione agli impatti sulla salute dei militari, del personale civile della difesa e delle popolazioni residenti nelle aree limitrofe a poligoni e installazioni militari.

La prima Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti dell’utilizzo dell’uranio impoverito venne istituita al Senato nel corso della XIV Legislatura. Tale iniziativa costituì un approfondimento di un’indagine conoscitiva precedentemente condotta dalla Commissione Difesa della Camera dei Deputati durante la XIII Legislatura, volta ad accertare il livello di conoscenza, da parte italiana, dell’impiego di munizioni all’uranio impoverito nei conflitti balcanici e le misure adottate per tutelare la salute dei militari italiani.

La prima inchiesta sull’uranio impoverito, conclusa a marzo 2006, ha evidenziato gravi lacune nel sistema di tutela della salute dei militari italiani impegnati nelle missioni all’estero. La relazione finale ha sottolineato la necessità di estendere le indagini a un contesto più ampio, includendo non solo i Balcani ma anche altri teatri operativi come i poligoni di tiro e le aree di stoccaggio delle munizioni. Inoltre, ha sollevato preoccupazioni riguardo all’esposizione della popolazione civile a fattori di rischio multipli, tra cui le nanoparticelle di minerali pesanti rilasciate dalle esplosioni.

Tale ambito di indagine è stato successivamente oggetto di una seconda Commissione Parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, istituita presso il Senato durante la XV legislatura, presieduta dalla senatrice Lidia Brisca Menapace.

Tra le conclusioni della Commissione Menapace spiccava l’introduzione del criterio probabilistico per l’analisi delle patologie potenzialmente correlate all’esposizione all’uranio impoverito. Questo criterio riconosce che, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, non è possibile stabilire un legame causale diretto e certo tra l’esposizione e lo sviluppo della malattia. Di conseguenza, la Commissione proponeva di adottare un approccio basato sulla probabilità, da applicare nei procedimenti amministrativi per l’accertamento e l’indennizzo delle patologie gravi o mortali contratte dal personale militare, sia durante le missioni all’estero che sul territorio nazionale. Questo approccio, pur non garantendo una certezza assoluta, consentiva di valutare l’eventuale connessione tra l’esposizione e la patologia e di prendere decisioni in merito all’erogazione di benefici.

Le precedenti commissioni d’inchiesta prepararono il terreno per la creazione, nella XVI Legislatura, della terza Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito sotto la presidenza del senatore Rosario Giorgio Costa, che concluse i lavori con l’approvazione della relazione conclusiva il 9 gennaio 2013.

La Commissione Costa, in riferimento al principio di probabilità di causa enunciato dalla Commissione Menapace, ha evidenziato le lacune e le incongruenze presenti sia nella normativa vigente sia nelle procedure attuative adottate dalle amministrazioni competenti in materia di riconoscimento del beneficio della speciale elargizione a favore dei soggetti equiparati alle vittime del terrorismo. Tali carenze hanno reso estremamente complessa e, spesso, contraddittoria la procedura di attribuzione del beneficio, generando un ampio contenzioso giudiziario in cui, spesso, le amministrazioni venivano condannate a causa della carente motivazione dei provvedimenti di diniego.

La Commissione Costa concludeva che le evidenze scientifiche disponibili non erano sufficienti per stabilire con certezza un nesso causale diretto tra tutti i fattori di rischio indagati, incluso l’uranio impoverito, e le patologie segnalate. Tuttavia, i dati raccolti non escludevano la possibilità che una combinazione di questi fattori, agendo in modo sinergico, potessero aver contribuito allo sviluppo delle malattie e dei decessi osservati.

Si arrivò, quindi, all’istituzione della quarta Commissione d’inchiesta.

Nell’ambito delle proprie attività, la Commissione ha avviato un’estesa campagna ispettiva presso le strutture operative, quali poligoni e arsenali, e raccolto un ampio numero di testimonianze dirette dei militari andati in missione. Tale campagna ha consentito di acquisire un corpus documentale di notevole rilevanza, destinato all’esame approfondito da parte degli esperti.

L’ultima fase dei lavori della Commissione ha focalizzato l’attenzione sull’applicazione della normativa vigente in materia di sicurezza dei militari impiegati in teatri operativi esteri, con particolare riferimento all’esposizione all’uranio impoverito. L’indagine si è concentrata in modo particolare sulla condizione del contingente italiano dispiegato nei Balcani a cavallo tra la fine degli anni ‘90 e gli anni 2000, portando a una condanna delle condizioni lavorative dei militari italiani nelle missioni all’estero e in Italia, esposti all’uranio impoverito.

L’orientamento attuale della Giurisprudenza del Consiglio di Stato

Le reiterate sentenze della magistratura ordinaria e amministrativa hanno costantemente affermato l’esistenza, sul piano giuridico, di un nesso di causalità tra l’accertata esposizione all’uranio impoverito e le patologie denunciate dai militari o, per essi, dai loro superstiti.

Per quanto riguarda il personale delle Forze armate, il percorso amministrativo che porta al riconoscimento della causa di servizio prevede:

  • il parere della CMO (Commissione medica ospedaliera) composta da medici militari, che si pronuncia sulla gravità della patologia e sulla corrispondente percentuale di invalidità che ne deriva, ma non sull’eziopatogenesi;
  • il parere del CVCS (Comitato di verifica per le cause di servizio), organo del MEF, nel quale i medici militari sono in maggioranza nella formulazione del giudizio sulla sussistenza del nesso di causalità, pronunciato su base esclusivamente documentale ed in assenza di un reale contraddittorio con l’interessato.

Nell’ambito del procedimento amministrativo ora descritto, non appare sufficientemente garantita la terzietà di giudizio. La prassi adottata dal CVCS è stata censurata anche dai giudici amministrativi che hanno annullato i provvedimenti di diniego rilevando che l’accertamento in ordine al nesso di causalità, il più delle volte, ha avuto esito negativo perché effettuato secondo canoni di certezza assoluta, anziché fondato sul consolidato principio probabilistico-statistico, affermato da costante giurisprudenza, proprio per l’impossibilità di stabilire sulla base delle attuali conoscenze scientifiche un nesso diretto di causa-effetto.

In merito, la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in particolare il parere n. 291 del 13 marzo del 2024, riassume quanto detto in corollari che fanno da guida sul tema.

Il caso di specie oggetto della recente sentenza del Consiglio di Stato riguarda il caso di un sottoufficiale dell’Esercito Italiano in servizio presso l’8° Reggimento Alpini, affetto da una patologia cardiaca, che aveva partecipato a numerose missioni in Italia e all’estero (in Africa e nella penisola balcanica con incarico di “addetto ai rifornimenti” e “gestore dei materiali”), che sosteneva l’esistenza di un rapporto di causalità tra le condizioni di svolgimento del servizio nelle missioni nella penisola balcanica con incarico di “addetto ai rifornimenti” e “gestore dei materiali” e la patologia cardiaca sofferta.

Il Consiglio di Stato riafferma il principio secondo cui per porre in discussione il parere del CVCS di esclusione della causalità di servizio “occorre una riconducibilità effettiva e comprovata dell’infermità, almeno in termini di concausalità, al servizio svolto, poiché l’art. 11 del d.P.R. n. 461/2001 – che prevede che il CVCS “accerta la riconducibilità ad attività lavorativa delle cause produttive di infermità o lesione, in relazione a fatti di servizio ed al rapporto causale tra i fatti e l’infermità o lesione” (primo comma) – “non ritiene sufficiente, a tale fine, la mera ‘possibile’ valenza patogenetica del servizio prestato, ma, di contro, impone la puntuale verifica, connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale, della valenza del servizio prestato quale fattore eziologicamente assorbente o, quanto meno, preponderante nella genesi della patologia”.

Infatti, “ai fini del riconoscimento della causa di servizio, è necessario che l’attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendo farsi ricorso a presunzioni di sorta e non trovando applicazione, diversamente dalla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni. Il principio della causalità adeguata richiede sempre la riconoscibilità dell’esistenza di fattori riconducibili al servizio che rivestano un ruolo di adeguata efficiente incidenza nell’insorgenza e nello sviluppo del processo morboso, mentre devono ritenersi totalmente escluse tutte le altre condizioni che un tale grado di concausale ingerenza non presentino, le quali – benché parimenti verificatesi in servizio – restano tuttavia riguardabili unicamente quali ‘mere occasioni rivelatrici’ di una infermità non avente alcun nesso di causalità o concausalità con le condizioni di servizio”.

Inoltre, ai fini del riconoscimento dello status di vittime del dovere, il Consiglio di Stato ricorda che le specifiche circostanze che connotano il servizio prestato dal militare, sono integrate, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 243/2006, dalle “particolari condizioni ambientali od operative”, di “carattere straordinario”, ove “per circostanze straordinarie devono essere intese, secondo il significato indicato dalla legge, condizioni ambientali ed operative ‘particolari’ che si collocano al di fuori del modo di svolgimento dell’attività ‘generale’, per le quali è quindi sufficiente che non siano contemplate in caso di normale esecuzione di una determinata funzione”.

Quindi, ai fini della speciale elargizione alle vittime del dovere, il legislatore non ha stabilito alcuna presunzione. Infatti, se il militare non è tenuto a dimostrare l’esistenza di un nesso eziologico fra esposizione all’uranio impoverito (o ad altri metalli pesanti) e neoplasia, egli deve però dimostrare di aver affrontato “particolari condizioni ambientali od operative”, connotate da un carattere “straordinario” rispetto alle forme di ordinaria prestazione del servizio, che siano “la verosimile causa di un’infermità”.

La giurisprudenza amministrativa ha, dunque, sottolineato l’eccezionalità di tali circostanze e la specialità dello status di vittime del dovere rispetto alla causa di servizio, poiché esso richiede che il rischio affrontato vada oltre quello ordinario connesso all’attività di istituto.

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